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Il programma del convegno

Che ne sarà di questo centenario? Da Trieste a Palermo si annunciano mostre e commemorazioni ma il cuore rimane la casa del poeta, il Vittoriale degli Italiani a Gardone Riviera, dove per la prima volta, insieme a studiosi di tutto il mondo, sono stati accolti i rappresentanti della città di Fiume, oggi Rijeka. Così, dal 5 al 7 settembre, si è svolto il convegno internazionale di studi fiumani. Un convegno importantissimo perché per la prima volta studiosi italiani e croati hanno avviato la costruzione di una storia condivisa. Le conseguenze di questo approccio sono state da una parte l’acquisizione di nuovi materiali e prospettive di studio e dall’altra l’emergere di un nuovo “fare storiografico”, che va oltre le ragioni e il decorso dell’impresa dannunziana per investire l’attualità e il senso stesso della storiografia. Questo centenario non può celebrare un trionfo – che tocca di diritto a qualche vincitore – ma solo la grazia e la poesia che affida alla nostra memoria la sconfitta di un gesto di rivolta.

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L’Arengario Studio Bibliografico
La città inquieta e diversa. Documenti di una rivolta
Gussago, Edizioni dell’Arengario, 2019
> Guida alla mostra <

Sia detto per orgoglio e per inciso: la mostra di documenti “La città inquieta e diversa. Documenti di una rivoltache ho curato – e che rimarrà aperta al Vittoriale fino all’8 gennaio 2020 -, ha fatto da corollario. La memoria, pure quella storica, può giocare brutti scherzi. Per fortuna ci sono i documenti: giornali, libri, volantini smascherano i fatti; tolta la patina della “realtà” e della “verità” li restituiscono alla dimensione umana, alla necessità di interpretare, comunicare e condividere. Una scelta di 130 pezzi particolarmente significativi tratti dalla nostra collezione fiumana (L’Arengario Studio Bibliografico) ricostruisce l’impresa dal 12 settembre 1919 al 18 gennaio 1921. Il Vittoriale, per espresso interessamento del presidente Giordano Bruno Guerri, è l’unica istituzione che ha voluto dare uno spazio privilegiato all’aspetto documentario. Eppure a detta di tutti, le idee, i sentimenti, i progetti materializzati nelle carte sono il patrimonio che abbiamo il dovere di curare e trasmettere alle nuove generazioni. Certamente, a differenza di una esposizione più o meno spettacolare in cui si offrono allo sguardo oggetti di inestimabile valore, le carte chiedono al pubblico di intervenire attivamente con la lettura, il confronto e la discussione, e di non rimanere passivo fruitore di contenuti visivi. Mi sembra significativo che oggi la Fiat rossa della Santa Entrada, insieme ad altre reliquie di inestimabile valore, si trovi in mostra a Trieste, mentre al Vittoriale che l’ha generosamente prestata rimangano in pianta stabile, fino a gennaio 2020, 12 bacheche zeppe di carte, sobriamente disposte lungo un loggiato tra il bianco e il giallo di pietre e colonne, tra fiori, il cielo e l’azzurro del lago.

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Claudia Salaris
Alla festa della rivoluzione
2002

Ma tornando al convegno: è del 2002 lo studio di Claudia Salaris Alla festa della rivoluzione. Artisti e libertari a Fiume, fondamentale perché offriva un punto di vista inedito sull’impresa, e talmente significativo che tutte le narrazioni e gli studi successivi hanno dovuto tenerne conto. Claudia è intervenuta con una acuta relazione ma il suo libro è stato il riferimento implicito, più o meno sottaciuto del convegno: mettendo al centro le istanze di rivolta, le contraddizioni, i sogni delle giovani generazioni e l’atmosfera delle avanguardie, non solo Fiume, ma l’intero Novecento si è aperto a inedite prospettive di ricerca. Quanto hanno influito sull’evoluzione della civiltà occidentale i fallimenti, le utopie, la poesia dei gesti di rivolta? Così, nella terra di D’Annunzio, a Pescara, dal 7 a 15 settembre, la commemorazione è stata intitolata “Alla festa della rivoluzione”: viene da pensare che oggi questa prospettiva sia talmente funzionale allo spettacolo da imporsi all’attenzione anche di coloro che a tutto penserebbero meno che a ribellarsi. Così il centenario sembra avviarsi verso una triste celebrazione di ebbrezze secondo gradazioni che variano dalla retorica nazionalista al sesso droga rock’n roll.
Però rispetto a questa spettacolarizzazione il convegno internazionale è stato, – e sarà, perché ne verranno pubblicati gli atti -, una specie di antidoto.

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Immagine tratta da L’ILLUSTRAZIONE ITALIANA, n. 39, settembre 1920

Un esempio estremamente significativo è stato l’intervento di Natka Badurina: con voce soave e una punta di veleno osservava che alla festa della rivoluzione non tutti si erano divertiti. Cosa che ha suscitato un acceso – e civilissimo – dibattito. L’obiezione più significativa è stata che non si doveva correre il rischio di “eticizzare” la storia, di “soggettivizzarla” mettendo in primo piano le vicende personali di singoli individui. Ma è proprio questo il punto. Perché non dovremmo “soggettivizzare”? Quando ne va della nostra vita, dei nostri affetti, delle cose che ci vengono portate via, la storia non appare in tutto il suo orrore? Tutte le supreme ragioni dello stato e dell’economia non si rivelano nella loro estraneità alla storia umana? Se la storia tritura le nostre vite, se l’esistenza di un individuo non conta ai fini di qualunque progresso, è proprio necessario che anche la storiografia la rifletta così scientificamente da ridurre il soggetto a comparsa? Forse per questo la storia che conosciamo è quella che poi raccontano i vincitori. L’intervento di Badurina sottolineava situazioni di profonda discriminazione e sofferenza, quelle di famiglie croate a cui veniva requisito il negozio, per esempio, e rivendicava una prospettiva che ne tenesse conto. Perché se la rivoluzione non è un pranzo di gala, cari amici, la vita corrente non è un tè per due.

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Bambini di Fiume, studio F. Slocovich 1920

Su questa discussione si innesta quel nuovo “fare storiografico” emerso durante il convegno: una diversa considerazione della soggettività e della quotidianità come anche di quel che appare marginale. Mi sono sembrati estremamente significativi, fra gli altri, interventi come quello di Ervin Dubrovic che raccontava del “Gabbiano”, una società segreta croata pronta a fare una controrivoluzione – e nessuno ne seppe niente perché occorse il Natale di sangue; o quello di Emanuele Cerutti, che attraverso gli articoli di cronaca della “Vedetta d’Italia” cercava di analizzare le ragioni di consenso e di dissenso da parte della popolazione nei confronti dei legionari, o quello di Dominique Reill che esaminando vari contenziosi fra mercanti e produttori italiani e croati, rilevava come, nel pieno della effervescenza dannunziana e legionaria, le cause giudiziarie procedessero secondo le vecchie norme dello stato austro-ungarico.

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Pagina pubblicitaria a cura di Cesare Cerati e Sandro Forti, tratta da LA TESTA DI FERRO, n. 12, 1920.

E’ vero: fatti di cronaca, vicende giudiziarie, annunci economici, inserzioni pubblicitarie, le manifestazioni, gli spettacoli, lo sport, ci restituiscono l’atmosfera e come il senso dei giorni in cui si inscrissero le vicende degli individui. Tutti questi eventi lasciati fuori dalla Storia con la “s” maiuscola, sono forse quello che manca alla costruzione di una visione comune, alla possibilità stessa di una storia condivisa.

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Giordano Bruno Guerri
Disobbedisco
Mondadori, 2019

Non ricordo, e me ne scuso, quale studioso abbia menzionato la storia di Albina e Nino. Era solo un accenno, dava per scontato che la vicenda fosse nota – ma, per dirla con Hegel, quel che è noto, proprio per il fatto che è noto, troppo spesso non è conosciuto. La storia l’avevo letta nel recente Disobbedisco di Giordano Bruno Guerri: una relazione contrastata dai genitori di lui, che ha 17 anni, legionario in servizio alle carceri di Fiume, e dalla sorella di lei che ha 7 anni di più. I due giovani decidono di morire insieme. E’ la metà del dicembre 1920, poco prima del Natale di sangue. Raccolgono le cose più care e le dispongono nella camera da letto. Fra di esse una testa di Dante scolpita con sopra scritto “W gli Arditi W d’Annunzio – Albina e Nino”. Erede di Nino è D’Annunzio. Vorrebbero usare un rasoio ma Nino non ce la fa a ferire l’amata. Pensa a un’arma da fuoco e ruba un moschetto ‘91 in armeria. Ha fiducia nella forza perforante di un moschetto italiano. Si coricheranno insieme con le teste accostate. Prima di sparare Nino appoggia il moschetto al muro mentre Albina lo abbraccia. La pallottola lo ucciderà ma verrà deviata contro la parete risparmiando Albina disperata. Di loro rimangono due lettere, una indirizzata alla madre di Albina, l’altra “al becchino che ci seppellirà”, intitolata Fine di un amore.
Cosa c’entra questo fatto di cronaca con la scienza storiografica?

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Immagine tratta da L’ILLUSTRAZIONE ITALIANA, n. 39, settembre 1920

Andando alla ricerca delle cause dell’impresa fiumana sono stati indagati i complessi rapporti fra le potenze internazionali, le diverse etnie, i trattati, i codicilli, la situazione economica, e chi ha cominciato e chi ha finito, eccetera. Sfugge quello che ci dovrebbe riguardare più da vicino, che la storia sia un prodotto del lavoro e dell’esperienza umana, in cui faticosamente prendono forma e pervengono a coscienza i bisogni, le aspirazioni, le paure di ciascuno. Quale importanza mai può avere oggi enumerare i profondi motivi, la ragion di stato, i trucchi e i sotterfugi di cui si servirono un po’ tutti per sfruttare l’impresa, dei mezzi più o meno disonesti necessari a sopravvivere, a comandare, a governare?

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Illustrazione tratta da LA TESTA DI FERRO n. 22, 1920

A Fiume si era creata una situazione anomala, in cui gli interessi economici e politici passarono in secondo piano rispetto a nuove istanze di vita, alla ricerca dell’avventura e di ogni godimento possibile, nell’ebbrezza dei canti, delle danze, dei cortei in cui confondersi, abbracciarsi, respirare insieme. Un sentimento comune alle donne e agli uomini, che era non solo nelle avanguardie artistiche e letterarie ma nei violenti focolai di ribellione sparsi nel mondo, quelli che D’Annunzio avrebbe voluto riunire nella Lega di Fiume, tanto quanto quelli che in Germania tra il 1919 e il 1923 vedevano coinvolti contro lo stesso governo socialdemocratico, da una parte i lavoratori comunisti, dall’altra i militari organizzati nei Freikorps. Un sentimento che Ernst von Salomon così esprimeva nel suo I proscritti (1930):

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Ernst von Salomon
I proscritti [Die Geächteten]Torino, Einaudi, 1943. Prima edizione italiana
Copertina di Renato Guttuso

…Ci si trovava lontani dal mondo delle leggi borghesi senza certezza alcuna di compenso o di meta; per noi non si erano infranti solo quei valori che un giorno tutti avevamo avuto per le mani: si era spezzata anche la crosta che ci teneva prigionieri. Si erano rotti i ceppi, eravamo liberi. Improvvisamente acceso, il sangue ci spingeva verso avventure inebrianti, verso lontani pericoli; spingeva anche gli uni verso gli altri quelli che più profondamente si riconoscevano affini. Eravamo una lega di combattenti ebbri di tutte le passioni del mondo, accesi di pazze cupidigie, esaltati nella rinunzia e nella dedizione. Ognuno ignorava ciò che voleva, rinnegava ciò che sapeva. Guerra e avventura, rivolta e distruzione, e un ignoto, tormentoso impulso che ci aizzava da tutti gli angoli dei nostri cuori“.

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Immagine tratta da AA.VV., Il Ventennale della marcia di Ronchi, Milano, Casa Editrice Carnaro, 1939

E’ chiaro che il mondo “folle e vile” avrebbe vinto, a Fiume come altrove, con tutte le sue ottime ragioni, la sua morale, il suo ordine politico, sociale, economico. Questo è il fatto storico: riguarda Fiume e la sua gente, D’Annunzio che volle farne poesia, l’Italia assisa fra le grandi potenze, i soldati che non volevano tornare a casa, i ragazzi che volevano vivere una vita spericolata. Riguarda anche Albina e Nino, lei la donna ventiquattrenne e lui il ragazzo di 17 anni, svergognati dalla pubblica morale: dovrebbero adeguarsi e invece scelgono di morire. Perché la storiografia, dopo aver esaminato, che so, il trattato di Versailles, non dovrebbe occuparsi delle ragioni della loro morte? E forse ne trarrebbe qualche vantaggio.

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Dall’archivio fiumano del Vittoriale

Nell’anomalia di Fiume c’è il punto di vista dominante dei produttori: borghesi e proletari di qualunque etnia, condividono la necessità dell’equilibrio fra diversi interessi, del rispetto delle leggi, di una morale comune, insomma della salvaguardia di un ordine esistente quale che sia – e di una storia che racconti e trasmetta tutto questo alle generazioni future. Al contrario la poesia di D’Annunzio, la violenza e la sfrontatezza legionaria, la creatività delle avanguardie insieme al sesso, alla cocaina, allo spirito d’insubordinazione sfuggono al controllo, corrompono e seducono: giovani e meno giovani nella loro esaltazione non si preoccupano del futuro, hanno spezzato la catena dei giorni, agognano l’impossibile, vogliono vivere nell’atmosfera dell’eroismo e della bellezza.

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Immagine tratta da L’ILLUSTRAZIONE ITALIANA n. 1, 1921

Albina e Nino scelgono di morire, con il loro gesto che per la Storia non esiste chiedono la nostra partecipazione: di fronte alla volgarità del potere e della morale non hanno parole né forza da opporre, solo la consapevolezza di essere lontani dalle miserie di chi dovrà riprodurre l’ordine esistente (“noi siamo di un’altra patria e crediamo negli eroiscriveva in quei giorni D’Annunzio): da quel potere e da quella morale che vorrebbe svergognarli e redimerli non vogliono essere toccati e avviliti: nello splendore di Eros, per la tenerezza, per l’amicizia e la sensualità che li avvince sono disposti a morire, davverocontro tutto e contro tutti”. Prima dell’esperienza di Fiume questo sarebbe stato possibile? E come trasmettere alle nuove generazioni – se mai la storia possa ancora insegnare a vivere -, gli strumenti e la sensibilità necessari ad aver cura dell’umanità misconosciuta nella forma di un sapere estraneo?

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Immagine tratta da L’ILLUSTRAZIONE ITALIANA, n. 1, 1921

Nell’ultimo messaggio di Albina e Nino c’è la sostanza dell’impresa, quel che ne importa e che vuole oggi come allora il nostro pensiero, con l’enfasi della giovinezza e la grazia senza tempo della poesia:

Non maledico nessuno perché non devo maledire e non ho motivo di maledire ancora una volta prima di morire, provo una gioia, una prova più cara e più profonda, del più profondo amore, che la mia sposa mi dà. Non solo muoio, essa pure mi vuole seguire, con me vuol venire per sempre restare, per non più, mai più abbandonarmi… Pure, o becchino, forse verrà una donna alta, un po’ elegante accompagnata da un uomo, a loro dille o becchino di allontanarsi da noi, che sono le pure e vere cause della nostra morte”.

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