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Ruggero Vasari, La mascherata degli impotenti, Roma, Edizioni Noi, 1923
A destra disegno di Enrico Prampolini per la sintesi teatrale La mascherata degli impotenti


Ruggero Vasari pubblica nel 1923 La mascherata degli impotenti ed altre sintesi teatrali (Roma, Edizioni “Noi”, 1923), con bellissime xilografie di Enrico Prampolini. Tre sintesi sono originali – quella che dà il titolo alla raccolta, Barriera e Il figlio, le altre tre erano state pubblicate nel 1921 nella raccolta Tre razzi rossi (vedi in questo blog: http://www.arengario.it/?p=161).

Ruggero Vasari, La mascherata degli impotenti, Roma, Edizioni Noi, 1923.
Disegno di Enrico Prampolini per la sintesi teatrale Il figlio

Impotenti che si mascherano sono gli artisti che sublimano l’appetito sessuale nella poesia: è un viaggio allucinante nella psiche: Silla e Tea artisti e amici vorrebbero semplicemente far l’amore ma ciascuno vede nell’altro molto di più che non un corpo. Vedono il padre e la madre l’eterno l’orrore la beatitudine: come si fa a prendere piacere l’uno dall’altro con tutti questi pensieri? Non c’è niente di più umano che non il desiderio e la curiosità per un altro corpo, per quella diversità e quel mondo a noi sempre ignoto che sono gli altri. L’artista, il geniale, è una aberrazione: non gli importa dell’altro ma solo ed esclusivamente dell’arte, cioè di se stesso: per creare deve distruggere la propria umanità, la sua relazione più autentica con gli altri.

Il sesso sano e consapevole di Marinetti irritava profondamente Vasari – e infatti Marinetti viene astiosamente nominato già nella prima pagina. Tutte le perversioni lo attraggono: incesto, sadomasochismo, necrofilia fino all’assassinio di un figlio neonato gettato dalla finestra in strada. E che quello fosse il figlio dell’ipocrisia e delle convenzioni non attenua la percezione di una profonda inquietudine: non saper stabilire relazioni autentiche.
Le immagini di Prampolini riflettono perfettamente quell’inquietudine: una per ciascuna sintesi, giocate sui vuoti e sui pieni del bianco e nero, sulle linee precise che tagliano il vuoto e lo ricompongono, delimitano il disordine, lo rendono percepibile ai sensi.

Ruggero Vasari, L’angoscia delle macchine, Torino, Rinascimento, 1925

Lo sviluppo necessario di questa inquietudine è il capolavoro che Vasari pubblicherà due anni dopo: L’angoscia delle macchine (Torino, Edizioni Rinascimento, 1925).

La sua prima rappresentazione fu un successo internazionale. Si svolse a Parigi, al Teatro Art et Action, il 27 aprile 1927. Vi avevano collaborato Vera Idelson per la scenografia, Silvio Mix per la musica, Margherita Van Leen alla regia, Edmond Autant e M.me Lara animatori.
La prima edizione a stampa esce nell’agosto 1925 col titolo L’Angoscia delle macchine. Sintesi tragica in tre tempi, sulla rivista torinese TEATRO Periodico di nuove commedie, Anno III n. 8, con belle illustrazioni delle scene disegnate da Vera Idelson e una introduzione di Gino Gori. Il libro uscirà il 15 novembre con lo stesso titolo e l’introduzione di Gori ma con l’inedita copertina di Pannaggi e un ritratto dell’autore di Gino Severini.
«E’ il più bel dramma che abbia dato il teatro futurista» aveva detto l’odiato Marinetti.

Un pianeta senza donne, perfettamente organizzato secondo leggi matematiche, dove le macchine vivono in simbiosi con gli uomini fa da sfondo al dramma. Ma le donne esiliate vogliono riconquistare il pianeta ed è sufficiente che la loro messaggera sia fatta prigioniera perché il protagonista Tonchir, allucinato ideatore di quel mondo perfetto, ne resti irretito. Tonchir deciderà di distruggere sé e il pianeta, sopraffatto dal sesso tanto temuto e il dramma si chiude con l’urlo disperato delle sirene e delle macchine morenti. Lo stesso tema verrà ripreso poi nel 1932 nel dramma Raun (vedi in questo blog: Le macchine morte di Raun http://www.arengario.it/?p=198).

Trionfo dell’umanità sulla genialità metallica e maschile? O non piuttosto la voluttà di abbandonare estenuati dal resistere il proprio corpo al piacere di un altro?

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