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TANO D'AMICO
CRISI E RESISTENZA
lunedì 28 settembre 2009 alle ore 13.14

Forse la mia generazione doveva nascere solo per questo. Forse solo per questo verrà ricordata. Per avere accompagnato sulla soglia della storia quelli che nella storia non erano mai entrati. Quelli che la storia l'hanno sempre subita. Quelli che la storia non aveva mai degnato di uno sguardo. Quelli che anche i testi sacri della sinistra disprezzavano.

TANO D'AMICO
Ci tenemmo per mano con le donne e gli uomini comprati e venduti, i carcerati, i rinchiusi nei manicomi, i rinchiusi nelle caserme, i senza casa, i senza possibilità. Con loro formammo un ceto nuovo, che non c'era mai stato.
Ideali nuovi lacerarono quella che doveva essere la storia. Da quegli strappi comparve una immagine nuova, brillò la bellezza, la dignità, la consapevolezza dei senza potere. Con la nostra sconfitta è rimasto solo il modo di vedere del vincitore.


Ricordo la sentenza del processo 7 aprile. Una brutta storia di trenta anni fa. Diceva la sentenza della magistratura, che dalla soglia della storia dovevano essere ricacciati là da dove venivano, nell'immondezzaio della storia.
L'immagine nuova scomparve dalla stampa. Tornò piano piano sulle pagine dei libri di storia, tornò nelle mostre internazionali di inizio millennio.
In tutti questi anni nel presentare il mio lavoro mi sono sentito e mi sono descritto di volta in volta come un guitto, un saltimbanco, un cantastorie. Un cantastorie che si inchina e chiede attenzione per una storia che è stata anche la sua.
Stavolta, davanti a voi, mi sento solo il compagno di viaggio più anziano delle persone che vedete in queste mie ultime fotografie. Quello che bussa a nome di tutti per chiedere ospitalità. Permettetemi ancora una volta di bussare al vostro cuore e alla vostra coscienza.
Toc, Toc. Chi è ?
Mie signore e miei signori, siamo ancora gli insoddisfatti, quelli a cui va stretto il mondo. Quelli che si tengono per mano e riempiono le strade.

TANO D'AMICO
INTRODUZIONE AL LIBRO
"VOLEVAMO CAMBIARE IL MONDO" (2008)

A Torino, una fredda mattina di sciopero, la luce è poca, il diaframma dell'obiettivo è tutto aperto. I tempi dell'otturatore sono lenti, fanno fatica a fermare le immagini sulla pellicola. Non c'è sfondo, le persone escono dalla nebbia, fanno pochi passi e scompaiono. La prospettiva è quella di poche linee scure che dividono il granito dalla strada.
I colpi di un tamburo di latta si avvicinano e si fanno sempre più veloci. I sorrisi compaiono tutti insieme, tutti insieme iniziano a correre, la nebbia si fa più luminosa, la luce sembra spingere la corsa.
Tutto è controluce. Certi colori si accendono, una bandiera rossa insegue dei capelli biondi, li raggiunge. I capelli biondi risaltano ancora di più. La bandiera rossa urla qualcosa ai capelli biondi. Il fotografo non riesce a sentire, le parole si perdono tra richiami, motti, fiatoni, battere di suole, frusciare di abiti.
Corrono gli operai a Torino. Madri di famiglia si tengono per mano, si fanno coraggio e tornano bambine. Corpi logorati, deformati da anni e anni di cattivo lavoro ritrovano la grazia dell'adolescenza. Ritrovano gesti, atteggiamenti dimenticati. Una classe segregata fin dalle elementari irrompe nelle strade, e dalle strade nella storia.


Ogni epoca, ogni età ha i suoi volti, i suoi occhi, i suoi sguardi, le sue espressioni. Possiamo anche dire che ogni tempo ha i suoi sorrisi. Ma quella è l'unica stagione in cui i sorrisi vengono tutti insieme.
Non ci furono soltanto sorrisi. Ci furono anche immenso dolore e profonda pena, ci furono tante grida di madri per i loro figli uccisi. Ci fu conflitto. Ideali nuovi lacerarono, strapparono quella che doveva essere la storia. Da quegli strappi vennero immagini nuove, nuovi modi di vedere.
Gli insoddisfatti, i ribelli, i rivoltosi, quelli a cui andava stretto il mondo si parlavano con i loro corpi, con le linee dei volti, i gesti, il loro modo di mettersi insieme, comporsi insieme. Insieme cercavano coraggio, insieme si davano gioia, insieme si aiutavano a sopportare un lutto. Componevano immagini senza tempo. Immagini senza tempo che ancora chidono partecipazione, chiedono amore.
La parola, la parola scritta non bastava. Quando mille istanze urgono tutte insieme la parola non basta. Quando si percepisce una dimensione nuova, le parole per descriverla non sono ancora state inventate. Si riscopre l'immagine con la sua astrattezza, la sua vaghezza, la sua possibilità di parlare al di là delle persone, degli avvenimenti, delle cose mostrate. La possibilità dell'immagine di mostrare l'invisibile, ed invisibile è il ricordo, l'amicizia, l'amore, il rimpianto.
Quando si mette in discussione un regime, la prima a cambiare è l'immagine. In quegli anni, che sembrano tanto lontani, l'immagine cambiò. Brillarono la dignità e la bellezza degli esclusi con la nostra sconfitta, rimane solo il punto di vista del vincitore.
Molto tempo fa, per discriminare un giovane fotografo, fu rispolverata una vecchissima disposizione poliziesca che assimilava i fotografi agli zingari, ai mimi, ai saltimbanchi, ai cantastorie. Il giovane fotografo si dichiarò onorato. Dopo quasi mezzo secolo permettetegli di inchinarsi come un guitto che chiede attenzione per una storia che è stata anche la sua.


MARCO GUARELLA
INTERVISTA A TANO D'AMICO
L'UNITA', 17 agosto 2001

"Su Genova non ho visto immagini pensose", ci dice Tano D'Amico, che incontriamo in Val d'Orcia, vicino a una abbazia dell'anno Mille. La direzione di questa intervista - "chiacchierata" preferisce lui - è subito data dalla complessità del discorso su e delle immagini. Tano ha alle spalle più di trent'anni di attività, se vogliamo nomade, randagia , dove ha incontrato migliaia di storie e volti.
Ma esordisce, quasi per chiarire immediatamente, con una battuta, un assunto della lezione di Roland Barthes.

D. Cosa è stato e cosa ha visto a Genova?

Tano: Io penso che esista sempre una differenza, due occhi non possono che avere un'impressione superficiale di quello che capita. Non bastano gli occhi, uno deve fermarsi e fare parlare tutto: dai volti feriti alle istanze delle centinaia di migliaia di persone che sono andate a Genova; cercarle sia nelle immagini che componevano i tanti corpi insieme, ma anche vedere, come se uno assistesse a uno spettacolo in teatro o al cinema - so che è cinico dirlo - quello che gli attori, se sono bravi, tentano e dicono, cioè far scorgere anche l'invisibile, i perché, i per come, i motivi. L'immagine di quei giorni è più che mai doppia. Oggi le videocamere, anche le più piccole, sembrano padrone assolute della rappresentazione mediatica rompendo qualsiasi possibilità di racconto.

D. Crede che tutto questo allontani dal reale, creando immagini che paiono addomesticate una sorta di wrestling estetico del conflitto sociale?

Tano: Io spenderei delle frasi per parlare di qualche cosa che è stato dimenticato. Perché sento e vedo quello che insegnano a scuola, e debbo dire che la sottocultura della fabbrica ha cambiato un po' i rapporti umani. Ha fatto un massiccio ingresso nella storia l'intercambiabilità degli esseri umani visti come "cose"; a sua volta il lavoro degli esseri umani è visto come "cosa", come prodotto intercambiabile. La sottocultura che domina, viene dalla fabbrica - ma dovremmo vedere anche da quali altri luoghi - ha reso un'immagine anch'essa "cosa"; come un mattone, che si assembla come uno vuole.
Si è rimossa dalla storia dell'umanità l'immagine, che non è una "cosa", vive, è un essere che ha una propria vita. Questo tipo di immagine, anche se per "comodità" delle intellighenzie dell'ultima parte del secolo scorso è stata rimossa, esiste. Quella delle videocamere un po' usate come le telecamere delle banche, che vengono messe sui bancomat, forniscono "immagini cose": possono andar bene per un verbale ma non fanno memoria. Sono incapaci di produrre memoria e pensiero, sono dei documenti, come i verbali. I verbali si aggiustano; io inviterei a riflettere sull'immagine che perdiamo sempre più: quella capace di produrre memoria, capace di avere una sua propria vita.

D. Le cose che dice mi pare siano una costante del suo "racconto", la messa in scena e la rappresentazione. Sente un particolare disagio per questa sovrapproduzione, questa serialità che tutto sommato è nuova, per il numero di videocamere che circolano?


Tano: Non è che le immagini sono troppe, non voglio "stoppare" le immagini. Sono un grande amante di queste e le ho scelte a mie compagne di vita. Quello che non va bene, e su questo dobbiamo puntare i piedi, è il farci portare a riflettere sui "documenti" che abbiamo visto e basta - come dire, non esiste tutto quello che non abbiamo visto. Anche se siamo stati capaci, i colleghi, i ragazzi, tutti quanti di far vedere scene raccapriccianti - cose che andavano viste - non sono le "visioni"di quei giorni.
In quei giorni ci sono state tantissime altre cose. Le grandi assenti dai media, sono state la bellezza, l'umanità, la cultura, le istanze delle persone e quelle immagini, non sono state in grado di raccontarle.
Questo non vuol dire che io odio quelle riproduzioni, ben vengano magari di più, però dobbiamo pensare, attrezzarci tutto l'anno e non soltanto ai summit mondiali, per cercare delle altre immagini che già esistono nell'animo e nelle domande che si sono fatti tutti quelli che sono venuti a Genova.

D. Lei non hai mai difeso la corporazione dei reporter, dei fotogiornalisti e né ha mai parlato, in tutti questi anni, a nome della categoria. Pensa che comunque ad una tendenza pericolosa, da parte dell'attuale quadro politico, nel limitare il diritto di cronaca?



Tano: Qualcuno anni fa scrisse che andiamo verso un tempo in cui sempre meno occhi vedono, e questi pochi debbono vedere per tutti. Mai epoca ha avuto poche immagini come la nostra, e si vedono sempre le stesse ed identiche, esiste un modo di vedere che va bene sia al Manifesto che a Berlusconi. La sovrabbondanza di foto e filmati di Genova, incapaci di raccontare il contesto, non ha fatto altro che fornire la giustificazione di episodi in cui il potere ha mostrato il suo volto omicida.
Il potere non si vergogna di quello che fa, quasi sempre lo fa perché tutto questo venga visto, per "educare".
Per questo anche le condanne a morte sono rappresentate e c'è una parte della popolazione che approva tutto questo. Le "maschere nere", quelle vere, che siedono in parlamento e in qualche giornale hanno difeso le forze dell'ordine per degli episodi indifendibili e anche a sinistra qualcuno ha minimizzato sull'oscenità delle sevizie fatte ai manifestanti, in particolare alle ragazze. Certo, io penso che la prossima volta avremo addirittura più difficoltà, anche per il rumore e lo scalpore che hanno fatto certe scene documentate.
Temo ci verrà impedito sempre più di fare cronaca, ma le immagini verranno, anche se ci impedissero nel modo più completo di farle nelle piazze, noi le faremo nelle case, nei sotterranei, negli angiporti, dappertutto.
Se noi abbiamo un modo diverso di vedere il mondo, quello trasparirà da ciò che saremo in grado di fare con i nostri strumenti.

D. Riusciamo a scorgere dell'umanità viva nei frantumi spenti che la bestialità del potere poliziesco ha prodotto a Genova?

Tano: Io penso che la bestialità abbia, oltre che ucciso, tentato di cancellare dai nostri occhi quei volti, quegli sguardi nuovi e bellissimi che c'erano e che torneranno ancora in piazza. Si voleva, umiliandoli, cancellare dal volto di questi ragazzi la bellezza. Abbiamo i racconti di Bolzaneto, Fiera, Diaz, questi piccoli e momentanei Garage Olimpo che hanno fatto inorridire anche le persone venute dall'estero che hanno visto la gioia dei soldati, degli armati che prendevano a calci con i loro stivali i volti delle ragazze di quindici anni - ed erano felici... volevano cancellare quel modo di guardare, che quando si afferma è incancellabile.
La violenza a Genova è quella maggiormente rappresentata a danno dei momenti collettivi felici, creativi. Vedremo qualche immagine della gioia e non solo della violenza?
Io ho visto che la ferocia, anche negli anni passati, si scatena quando c'è appunto una felicità dell'essere in piazza. Nel nostro paese, nei giorni di luglio, un popolo "completo" come non mai è sceso in strada, dai cattolici ai migranti, insieme. Questo determina che anfibi, manganelli, pistole si abbattano su questa moltitudine per spezzarla, perché incompatibile con il modo di vita attuale. Ci sono dei giovani che facevano teatro e sono stati incarcerati. Credo di averli incontrati , sono dei giovani capaci di mettere in piazza la loro grazia, la loro bellezza in quadri, spettacoli che durano pochi istanti e prendevano in giro l'uso che si fa delle donne veline/vallette. Siccome erano delle ragazze bellissime c'era di fronte a loro un muro di telecamere; ma non ho visto questo sui giornali, sulle televisioni pubbliche e private, quasi che il teatro incarcerato ha fornito delle altre immagini che non hanno corso. Erano ragazzi e ragazze più belli degli attori e dei modelli televisivi, forse capaci di incrinare qualche frame televisivo. La censura non è per ordine della CIA, ma è perché le televisioni hanno qualche difficoltà a mostrare immagini che si mangiano o dissimulano le lo loro stesse icone.


D. Sei riuscito a fissare dei ritratti e vedi delle analogie negli sguardi presenti e passati?
Ogni epoca ha i suoi volti, il suo modo di guardare, di guardarsi. Penso a immagini passate. Si fissano degli sguardi nelle persone che scendono in piazza: capaci di affrontare tutto, anche il dolore, quando hanno nei loro occhi un modo di vedere diverso da quello che domina. Ricordiamo il modo di guardare nelle foto della Comune, i ritratti che Nadar ha scattato; questo fotografo avventuroso non ha quasi fatto foto perché era impegnato ad essere parte della Comune, perché pensava di aver già fatto le immagini che doveva fare: i comunardi, il volto dei suoi amici.
C'è sempre un "vedere differente", come era diverso lo sguardo di Roma città aperta dallo quello della Spagna del '36. Se non pensiamo per un attimo al sangue, teniamo mente gli occhi delle "persone di luglio", il loro modo di guardare, così diverso per esempio da quello del '77, è un modo di guardare lontano.
In tutte le immagini, anche in quelle degli innamorati che stanno insieme, si percepisce che non erano assorti solo dai loro attimi di vita ma sentono che su di loro incombe qualcosa e tentano di guardarlo... come se mettessero a fuoco su un punto. Un punto, che non dista molto dall'infinito.

TANO D'AMICO
UN FOTOGRAFO TESTIMONE
Tano D'Amico, Gli anni ribelli (1968 - 1980), Roma, Editori Riuniti, 1998; pag. 16

C'era una volta...
Con le parole delle favole vorrei cominciare questi brevi pensieri sulle immagini e sui movimenti. C'era una volta un tempo in cui i fotografi giravano per il mondo e venivano accolti come amici, come compagni di viaggio proprio dalle persone che si trovavano in mezzo ai guai. I fotografi ricambiavano l'amicizia. Partecipavano ai drammi delle persone che incontravano. Le loro immagini permettevano a questi drammi di venire alla luce, di essere conosciuti. Si può dire che le loro immagini permettevano a esseri umani che sarebbero altrimenti rimasti lontani di incontrarsi.

Riflettiamo un momento. Pensiamo alla Somalia, alla Bosnia. Si faceva il tiro a segno sui fotografi. Si sparava da lontano senza nemmeno sapere se erano amici o nemici. Molto si è detto e scritto su queste morti, e si è fatta anche molta retorica. Sta di fatto che per la prima volta si è spezzato quel filo che ha sempre legato immagini e sofferenti, immagini e insoddisfatti.
Anche le minoranze, gli uomini che sono stati sempre amici delle immagini, adesso le temono. E' con grande tristezza che vedo i piú teneri, i piú acuti, i piú dolci, i piú profondi rivoltosi del nostro tempo presentarsi alla soglia della storia con il passamontagna. Per quanto mi riguarda, ricordo, da quasi vecchio, di avere avuto la grande fortuna di essere stato spinto sulle strade. Di essere stato spinto sulle strade dagli insoddisfatti del mio tempo che pretendevano da me altre immagini e mi regalavano i loro volti.

Anche se si parlava e si scriveva molto, quando irrompevano ideali e istanze nuove, erano le immagini a cambiare per prime. Si aveva subito coscienza di quanto fosse inadeguato il modo di vedere che si era coltivato prima. Si cercavano altre immagini. Si scopriva che si era stati rappresentati male. Ci si accorgeva che le immagini dei giornali tentavano di esorcizzare quello che stava accadendo. Si scopriva sulla propria pelle che gli avversari anche solo potenziali di chi era al potere venivano resi mostri, spogliati di dignità, bellezza, cultura.




FRANCESCO PICCIONI
IL '77. IMMAGINI. INTERVISTA A TANO
da Una sparatoria tranquilla – Per una storia orale del ‘77”, Roma, Odradek edizioni, 1997). 

D. Come racconteresti con un’immagine, con una foto che hai davvero scattato o anche che non hai scattato, il tuo ’77?

Tano:  Il ’77 lo vedo con tante immagini, con tante facce, con tante espressioni di giovani, ragazzi e ragazze, che non esistono più. Io ho visto che le facce di quel periodo sono scomparse. Sono scomparse forse perché la faccia ognuno se la fa, con le domande che si pone, e quelle domande forse non esistono più,almeno formulate in quel modo. E non esistono più le facce del 1977…

D. Più vive?
Tano: Io non oso dire… Sono diverse, sono diverse. Quello che mi fa riflettere molto è perché le facce compaiano tutte quante insieme, e scompaiano tutte quante insieme. Ho visto che nel caso del '77 è vero che quelle facce è come se fossero scomparse tutte quante insieme. Esistono dei periodi della storia che mi interessano molto… per esempio i volti che Caravaggio ha dipinto sono scomparsi tutti quanti insieme.
Erano degli amici che si volevano bene, che non si trovavano bene nel mondo come era, avevano delle grandi aspettative e tutti quanti sono proprio scomparsi in giovane età, cioè non molto vecchi, tutti quanti prima di compiere i quaranta anni, uomini e donne, sono scomparsi. Sono rimaste le facce, di Caravaggio.
D. Con l’attività di “ladro d’immagini”, qualche volta ti si sono posti dei problemi, dei conflitti “di coscienza”, se pubblicare o non pubblicare delle foto in considerazione di quello che stava accadendo, del clima…?

Tano:
Tantissime volte. Sempre. Quando cominciai i miei lavori per Lotta Continua e per Potere Operaio del lunedì, dovevo stare molto attento a fornire delle fotografie che non mandassero in carcere delle persone. Che non voleva dire non fare vedere delle persone che compiono reati,perché tutti i giorni si commettevano reati. Si commettevano reati perché c’erano delle istanze di cambiamento e quindi si incorreva spesso in piccoli reati, anche per attaccare dei tazebao, per opporsi a degli sgomberi. E dovevano essere quindi delle fotografie limpide, chiare. Io odio le immagini con le barrette sugli occhi. Quindi dovevano essere delle fotografie in cui si dovesse vedere in modo chiaro chi erano le vittime e chi i carnefici. E chiaramente è brutto mandare in carcere delle vittime. Infatti bisogna dire che pur vedendosi nelle mie immagini, anche quelle che ora si vedono, quelle di venticinque anni fa, delle immagini di persone che commettono reati, mai, mai una persona è stata portata davanti ai giudici per una immagine così. Qualche volta quelle immagini sono servite come prova a discolpa. Ecco, questo volevo dire, dovevano essere delle immagini molto ma molto cercate. In cui, anche in modo astratto, dalle linee, dai chiari, dagli scuri, come per esempio in teatro, sul palcoscenico, in un balletto ad esempio, si vede subito chi sono i cattivi e chi i buoni. E così nelle mie immagini si doveva vedere subito a chi doveva andare la simpatia dei lettori, degli spettatori. 


D.
In questo caso la politica ti è servita anche come lezione di stile e soprattutto ti è servita per ricercare uno stile tutto tuo?

Tano: Devo dire senz’altro sì. Ma non la politica, l’umanità, l’amicizia. Il fatto di essere amici… Devo dire che anche nei luoghi comuni sulla fotografia si parla sempre di immagini rubate, di immagini prese di sorpresa, io devo dire che nel mio caso, e ringrazio tutti, si è trattato sempre di immagini regalate. Cioè che si voleva che fossero fatte. 

D. Nel caso della foto di Daddo, che adesso finalmente vediamo pubblicata, era una delle foto che erano state messe da parte?

Tano: Sì, ma è un caso molto marginale. Cioè, secondo me si può parlare di fatti, di avvenimenti, anche se manca qualche immagine. 

D. Io concordo sul fatto che non sia stata pubblicata allora, naturalmente. 

Tano: Sì. Ma grazie al cielo non c’erano sempre dei casi così. Ecco, quello che io volevo fare vedere, e mi era stato chiesto di fare delle fotografie in questo senso, era come ad alcuni ceti, ad alcuni gruppi di persone, nelle immagini che si vedevano, veniva sottratta l’immagine. Cioè, nelle immagini che si vedevano, degli occupanti di case, delle persone che vivevano nelle baracche, per esempio, si vedevano sempre dei volti di brutti, sporchi e cattivi. Gli veniva sottratta umanità, dignità, bellezza. Esattamente come si fa tuttora con i giovani in quanto tali oppure con le minoranze in quanto tali. E’ un gioco che continua tuttora, quello appunto di usare l’immagine per spingere le persone a vergognarsi della loro stessa vita, e di introiettare delle colpe, che non sono loro e che li spingono a vivere in un modo passivo. 


D.
Allora di occupazioni delle case, a Roma in particolare, ce n’erano molte. La quantità delle occupazioni di case che c’è stata a Roma è assolutamente sproporzionata rispetto alle altre città d’Italia. Anche a Milano, Torino, non si sono mai verificate in queste dimensioni, si è sempre trattato di occupazioni di singole palazzine, da parte di gruppi politici; via Ribaldi, ecc. A Roma invece c’era proprio un movimento popolare. Come lo ricordi? Perché poi la cosa è stata lunga, dal ’68 fino a oltre gli anni ’80, quindi quasi venti anni di occupazioni di case. 

Tano: Ricordo delle notti molto molto buie, in cui mi veniva detto di trovarmi in un certo posto e poi venivo messo al buio e di fronte sentivo rumori, porte che venivano rotte, queste cose. Bisogna dire che in queste notti c’era sempre spazio per le immagini. Mi ricordo che con il flash potevo fare il giro degli appartamenti, delle stanze, aprire le porte e fare delle foto, e la mattina dopo vedere nelle foto scattate con il flash delle cose che non si potevano vedere al buio, vedere dei bambini che dormivano, delle famiglie intere che dormivano per terra, dei bambini che si svegliavano per il rumore della porta… Ecco, e le fotografie, questo volevo dire, anche se adesso a noi sembrerà strano, venivano cercate. Io venivo cercato, è stato un periodo molto bello della mia vita. Venivo cercato perché si volevano delle immagini diverse. Perché avevano visto su Lotta Continua, su Potere Operaio del lunedì, anche gli occupanti di case comparivano come delle belle persone, allora gli occupanti delle case volevano delle altre immagini.


D. Non volevano più essere dipinti come brutti sporchi e cattivi? 

Tano: No, no. 

D. E cosa ricordi della qualità della vita durante il ’77, all’interno del movimento? Si diceva: riprendiamoci la vita, cambiamo la qualità della nostra vita. Quei cambiamenti, che allora erano in corso, come sono sopravvissuti, se sono sopravvissuti? Per come poi hai continuato a seguire le vicende dei… diciamo, dei reietti. 

Tano: Delle minoranze. Purtroppo di minoranze. C’erano, ecco,quando parlavo delle facce, c’erano delle istanze di vita diversa. Era vero che si voleva vivere tutti quanti insieme, mangiare tutti quanti insieme. Adesso sono impensabili delle feste… Poi gli assessori che sono venuti dopo hanno copiato quelle feste. Quando un omosessuale bandiva una festa, cioè invitava tutti quanti, cinquantamila persone, sessantamila persone, ad una festa sui prati di Montalto di Castro,ad esempio, si andava tutti e c’era spazio per tutti, ma non solo per i giovani e per i belli. C’era spazio anche per i portatori di handicap, perché c’erano in mezzo a noi quelli che lavoravano con i portatori di handicap, e non erano assenteisti, quindi se li portavano, e c’erano insegnanti che portavano con sé i bambini, e c’era spazio per tutti, per i giovani, per i belli, per i brutti, per i portatori di handicap, c’era spazio per i pazzi, per i malati di mente. E secondo me solo nei periodi alti della civiltà esistono delle feste per tutti. Ecco, se tu ci fai caso, anche nella letteratura è raro trovare, sì, forse nella Comune di Parigi, ma soltanto nei periodi alti della civiltà è possibile trovare delle feste così, in cui c’è spazio per tutti. Per esempio, nei nostri anni, anche nelle feste che fanno i centri, per fasce orarie, in molti modi, eccetera, ci sono intere classi di persone che vengono escluse. Per esempio i bambini, per il fumo delle sigarette che c’è, per l’orario, per esempio le madri, le donne che lavorano, che non possono venire. In questo senso sì, il ’77 è rimasto uno dei momenti alti della mia esperienza. 


D. Perché nessuno doveva essere escluso, nessuno doveva essere “fuori”. 

Tano: Sì. Anche, per esempio, nelle lotte per scherzo che si facevano, di donne contro uomini. Chiaramente anche allora c’era la guerra, che è in corso sempre, di donne contro uomini. Ma è vero che lì era proprio fatta per scherzo e vincevano le donne. Sempre vincevano le donne. Che rompevano gli accerchiamenti degli uomini, ridendo, e circondavano gli uomini, da cui era partita questa offensiva e che rimanevano poi vittime delle donne. 

D. Vittime volontarie… 

Tano: Sì, ma fino a un certo punto. Gioiose vittime. 

D. Perché loro ci mettevano sempre più serietà di quanta non ce ne mettessero gli uomini… Senti, rispetto a tutte le definizioni che sono state date poi, o anche durante, del ’77, qual è la tua definizione di quel movimento? E’ stato definito come conflitto generazionale, come embrione di guerra civile, come movimento politico o come movimento contro la politica, come un’ondata di creatività, come contestazione contro la politica dei sacrifici, come movimento rivoluzionario di massa… Non per definirlo e concluderlo, ma quale lettura ne daresti, come lo ricordi? 


Tano: Io non lo so. Forse era un pezzettino di tutto quanto. Ma quando rifletto su quell’anno della mia vita e della vita degli altri, penso che doveva essere qualcosa di molto importante. Lo è stato, come ho detto, nella mia vita e lo è stato, anche amaramente, nella vita degli altri. Perché molte persone poi hanno sofferto tantissimo, venendo escluse, loro che non volevano escludere. Venendo escluse, vivendo per vent’anni nelle carceri. E altre per esempio si sono escluse dalla vita, penso alle persone che si sono uccise, anche. C’è una mia immagine, che ricordo e mi piace, che poi non è una mia immagine, è un’immagine degli altri, infatti è una foto di gruppo del '77: allora si vedono delle persone che hanno fatto carriera, delle persone che si sono tirate via dalla vita. Per esempio io avevo, e ho tuttora, un amico molto molto caro, che per mesi è stato quello che ha diretto il giornale in cui lavoravo in quegli anni, Lotta Continua, che ora fa il bidello in una scuola di Bologna, con la laurea in Lettere, tutto quanto… 

D. Lasciamo perdere gli altri redattori che fine hanno fatto… 

Tano: Che è come dire che si è tolto dalla vita. E mi raccontano che quando ci sono i bambini piccoli che fanno chiasso, che gridano, eccetera, lui  mette mano al violino, che suona molto ma molto bene, e si zittiscono i bambini. Ecco bisogna dire questo, io ricordo moltissime persone, intelligenze brillanti, dei grandi cuori, che quando hanno visto i loro amici morire, come è il caso di questo ragazzo, che era molto amico del compagno che è stato ucciso nella sua città,che è Bologna, si sono tolti via dalla vita. E’ come se si fossero tolti via dalla vita, per molti aspetti. 


D. Hanno rinunciato all’agire collettivo… 

Tano: Hanno rinunciato alla competitività, a tutto, e siccome questa vita, la vita che è venuta poi, è fatta di competizione ed è spietata, come vediamo… Vediamo quelli in mezzo a noi che hanno fatto carriera e hanno fatto carriera essendo spietati come gli altri. E vorrei dire che non mi scandalizza quando uno è spietato, o lecchino, ma lo è sempre stato. Io mi scandalizzo, rimango male, quando vedo qualcuno che ha vissuto con noi, quindi che ha visto il sangue dei propri amici per la strada, o anche degli altri, ha visto le altre facce della vita e dimentica tutto ciò per essere come gli altri. Ecco, questo fa un attimo senso. 

D. Una domanda sulla violenza del ‘77 devo fartela. Perché inevitabilmente è una delle caratteristiche salienti. Il movimento comincia con un compagno che rimane in coma per diverso tempo e altri compagni che rimangono feriti il giorno successivo. Per te i livelli di violenza che si sono manifestati in quell’anno erano stati imposti da alcune componenti, imposti dalla polizia, imposti dai fascisti (anche nel ’77, come sempre, comincia così), oppure imposti da una scelta di matti… Siccome c’è stata,quale è la tua interpretazione, di allora o di adesso, come vuoi tu, di come si sono sviluppate le cose? Come si è sviluppata la dinamica dello scontro violento? E dove vanno ricercate, secondo te, le responsabilità? 


Tano: Debbo citare delle pagine di un saggio, di un grande uomo di scienza, di un insegnante dell’Università, mi sembra di Milano, di Pavia anche. Questo qui scrisse un saggio, dimenticato, qualche anno fa, sull’uso della violenza dello Stato nel 1977. […] E qui devo dire delle cose, anche, delle cose che ho visto. Nel senso che proprio quando non capitava niente e il movimento metteva in piazza, per esempio le sue feste, metteva in piazza dei momenti altissimi di civiltà, e si mostrava capace di vivere per conto suo, di sperimentare dei modelli nuovi di vita, il giorno dopo capitava sempre qualche cosa, a riportarci su una strada che altri aveva fatto per noi. Su delle trappole che altri aveva teso per noi. 

D. Quindi solo come trappole. Perché il movimento risponde. Quindi in parte accetta la provocazione e accetta di rispondere… 

Tano: Avrebbe potuto fare delle altre cose. Se fossero mancate quelle sollecitazioni, nessuno di noi magari avrebbe pensato a certe… 


D. O perlomeno le cose non sarebbero andate così velocemente e così presto verso… E quindi a cosa attribuisci il fatto che il ’77 è un movimento che viene continuamente rimosso, non viene mai raccontato, nemmeno a livello della ricostruzione artistica. Se non per, diciamo, insulti postumi, come in alcuni film che sono francamente terribili? 

Tano: Io parlavo dei momenti alti della storia. Per esempio, tanto per fare dei paragoni, andando al 1520, alla grande rivolta dei contadini, pure questa è stata rimossa, poi, dai vincitori. E' stata rimossa in mille modi. Anche facendo scomparire dalle immagini l’umanità che alcuni artisti avevano dato… Quando parli della rimozione anche nelle arti, nelle lettere, questo è un caso esemplare: viene rimossa l’umanità, la bellezza, la dignità e la cultura dei contadini. Per esempio c’è Dürer,  il maggiore artista dell’epoca, che viene zittito,  c’è Grünewald,  che deve cambiare lavoro, scappare, e quando muore esercita il mestiere di idraulico. Era il pittore di cattedrali intere. Ecco, così è capitato anche al 1977. 


D. Per esempio, al ’68 questo non è accaduto. Il ’68 viene riletto, recuperato in gran parte, i suoi uomini vengono comunque accettati per quello che sono, molto spesso, mentre col ’77 tutto ciò non accade. Chiunque sia stato un esponente conosciuto, non diciamo “di punta”, del ’77, difficilmente ha fatto carriera. Anche se magari si è reso disponibilissimo a farla, però, tra quelli che erano conosciuti grandi carriere non ce ne sono state. Come vedi questa differenza, malgrado l’innegabile continuità, perché poi chi aveva 18 anni ne aveva 25-26 nel ’77? 

Tano: Oppure chi ne aveva 20 ne aveva 27 

D. Sono due destini, anche letterariamente, diversi. 

Tano: Infatti si è visto che moltissime persone che hanno fatto il ’68 non hanno poi fatto il ’77, no? Ora sono delle cose che possono essere brutte da dire, ma vedendo il ’68 nel mondo del cinema, nelle università, in cui c’erano i giovani che volevano, molte volte, solo i posti dei vecchi. E quando hanno ottenuto i posti dei vecchi, sono stati come dei vecchi. Infatti non si sono sporcati le mani con il ’77, quando c’erano delle istanze molto, ma molto, maggiori, delle istanze di vita, di reddito, ecco. Ma io metto il ’77 con la rivolta dei contadini. Non metterei il ’68 con la rivolta dei contadini del 1520-25. 

D. Quindi non abbiamo speranze di vedere artisti che si misurano su questo terreno? 

Tano: No, io spero che verranno. Come sono esistiti degli artisti che sono poi andati indietro a rivedere, e a fare in modo che non fosse dimenticata, la grande rivolta dei contadini, che portava degli ideali nuovi, come quello dell’uguaglianza, per cui tutti sono eguali davanti a Dio, che Cristo è morto per tutti, per l’Imperatore come per il garzone della sua stalla. Questo era uno slogan che loro usavano, gridavano spesso. E penso che sia vero.


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